(continua ... post del 9 novembre)
Ancora decolonizzazione dell'immaginario: resoconto di un congresso italiano sull'argomento ... ci si muove cisi!
La riflessioni sulla decrescita globale sono un tentativo di mettere in discussione l’idea dominante negli ultimi due secoli secondo la quale il progresso dell’umanità si basa sulla crescita indefinita della ricchezza prodotta.
Le riflessioni sulla decrescita pongono interrogativi transdisciplinari che necessitano non solo del contributo degli economisti, ma anche di quello dei sociologi, degli antropologi, degli storici, dei filosofi e degli esperti di scienze naturali; un contributo fondamentale viene dal pensiero ambientalista.
Per motivare le riflessioni decrescita occorre ridiscutere la teoria della crescita analizzandone i presupposti e gli effetti fallimentari.
Il presupposto fondamentale è l’ideologia dell’espansione: espansione della produzione, espansione dell’utilizzo della natura, espansione del consumo in nome del benessere crescente dell’umanità.
L’ideologia dell’espansione è figlia della filosofia meccanicistica assunta nell’800 dagli economisti e mai da loro rimessa in discussione. Due in particolare sono i principi che giustificano l’ideologia dell’espansione:
Le riflessioni sulla decrescita pongono interrogativi transdisciplinari che necessitano non solo del contributo degli economisti, ma anche di quello dei sociologi, degli antropologi, degli storici, dei filosofi e degli esperti di scienze naturali; un contributo fondamentale viene dal pensiero ambientalista.
Per motivare le riflessioni decrescita occorre ridiscutere la teoria della crescita analizzandone i presupposti e gli effetti fallimentari.
Il presupposto fondamentale è l’ideologia dell’espansione: espansione della produzione, espansione dell’utilizzo della natura, espansione del consumo in nome del benessere crescente dell’umanità.
L’ideologia dell’espansione è figlia della filosofia meccanicistica assunta nell’800 dagli economisti e mai da loro rimessa in discussione. Due in particolare sono i principi che giustificano l’ideologia dell’espansione:
1) secondo gli economisti la vita sul pianeta sarebbe il frutto di un insieme di meccanismi separabili gli uni dagli altri (e non reciprocamente interconnessi);
2) le attività economiche sarebbero sottoposte alle leggi della meccanica (che sostiene i principi di conservazione dell’energia e di completa reversibilità dei processi) e non alle leggi della termodinamica (che sostiene invece come qualsiasi attività lavorativa porti ad un aumento irreversibile del disordine complessivo).
Gli effetti della teoria della crescita sono tragici e riassumibili in tre considerazioni:
Gli effetti della teoria della crescita sono tragici e riassumibili in tre considerazioni:
1) la metà dell’umanità non soddisfa i suoi bisogni basilari;
2) lo stato ambientale del pianeta è in via di drastico peggioramento;
3) le spinte all’espansione dei diversi stati e dei diversi attori economici provocano un alto grado di conflittualità permanente.
Per superare la teoria della crescita e i suoi effetti tragici occorre discuterne i presupposti. In particolare occorre che:
1) gli economisti assumano il principio termodinamico della deperibilità dell’energia e della materia (l’energia e la materia non possono essere indefinitamente riciclate per usi umani e la loro deperibilità è rapida, oggi a New York l’80% di ciò che viene acquistato diviene rifiuto entro 2 giorni, ndr)
2) gli economisti assumano il principio secondo il quale la vita sul pianeta è un sistema profondamente interconnesso nel quale le azioni in un settore possono provocare reazioni difficilmente controllabili in altri settori.
Come primo passo concreto occorre che gli economisti e la società intera discutano del problema delle fonti d’energia; dalla Rivoluzione industriale in poi si è registrato un aumento enorme della produzione di ricchezza che ha provocato due effetti sociali collegati:
1) gli economisti assumano il principio termodinamico della deperibilità dell’energia e della materia (l’energia e la materia non possono essere indefinitamente riciclate per usi umani e la loro deperibilità è rapida, oggi a New York l’80% di ciò che viene acquistato diviene rifiuto entro 2 giorni, ndr)
2) gli economisti assumano il principio secondo il quale la vita sul pianeta è un sistema profondamente interconnesso nel quale le azioni in un settore possono provocare reazioni difficilmente controllabili in altri settori.
Come primo passo concreto occorre che gli economisti e la società intera discutano del problema delle fonti d’energia; dalla Rivoluzione industriale in poi si è registrato un aumento enorme della produzione di ricchezza che ha provocato due effetti sociali collegati:
1) si è passati da una situazione di sottoproduzione ad una situazione di sovrapproduzione endemica;
2) conseguentemente da un punto di vista quantitativo si è passati da problemi di produzione a problemi di distribuzione. Questi passaggi hanno visto la sostituzione dell’uso di fonti di energie rinnovabili (i flussi più o meno continui di energia muscolare, idraulica, eolica) con fonti di energia esauribili (gli stock di carbone e petrolio). Oggi occorre ragionare su un’economia nuovamente basata su fonti di energia rinnovabili e in particolare sulla principale fra esse: l’energia solare.
Come secondo passo concreto occorre che gli economisti e la società intera abbandonino l’idea che il progresso tecnico sia automaticamente produttore di risparmio ambientale: grazie al progresso tecnico negli Stati Uniti oggi si produce un dollaro di prodotto interno lordo con il 25% di energia rispetto agli anni ’80, ma nello stesso periodo il consumo complessivo di energia negli Stati Uniti è aumentato del 30%.
Il progresso tecnico oggi è gestito da una società capitalistica e il capitalismo si fonda sull’asservimento della tecnica e del lavoro all’accumulazione privata; in queste condizioni la spinta all’accumulazione continua inverte completamente le possibilità di risparmio energetico progressivamente scoperte dal progresso tecnico.
L’accumulazione indefinita su cui si basa il capitalismo può reggersi solo se è supportata da un aumento indefinito del consumo. Le strategie per alimentare la cultura del consumismo sono sempre più aggressive e si basano sulla colonizzazione dell’immaginario.
Una delle modalità più efficaci di colonizzazione dell’immaginario è la creazione di relazioni sociali virtuali attraverso il possesso di simboli comuni (non compro una scarpa perché ne ho bisogno per camminare, compro l’ennesima scarpa con il simbolo Nike perché ne ho bisogno per appartenere alla comunità dei possessori di Nike).
Come secondo passo concreto occorre che gli economisti e la società intera abbandonino l’idea che il progresso tecnico sia automaticamente produttore di risparmio ambientale: grazie al progresso tecnico negli Stati Uniti oggi si produce un dollaro di prodotto interno lordo con il 25% di energia rispetto agli anni ’80, ma nello stesso periodo il consumo complessivo di energia negli Stati Uniti è aumentato del 30%.
Il progresso tecnico oggi è gestito da una società capitalistica e il capitalismo si fonda sull’asservimento della tecnica e del lavoro all’accumulazione privata; in queste condizioni la spinta all’accumulazione continua inverte completamente le possibilità di risparmio energetico progressivamente scoperte dal progresso tecnico.
L’accumulazione indefinita su cui si basa il capitalismo può reggersi solo se è supportata da un aumento indefinito del consumo. Le strategie per alimentare la cultura del consumismo sono sempre più aggressive e si basano sulla colonizzazione dell’immaginario.
Una delle modalità più efficaci di colonizzazione dell’immaginario è la creazione di relazioni sociali virtuali attraverso il possesso di simboli comuni (non compro una scarpa perché ne ho bisogno per camminare, compro l’ennesima scarpa con il simbolo Nike perché ne ho bisogno per appartenere alla comunità dei possessori di Nike).
Le strategie di colonizzazione dell’immaginario hanno bisogno di una nuova divisione internazionale del lavoro in cui il Nord del mondo tende sempre più a produrre i simboli e il Sud del mondo gli oggetti su cui quei simboli viaggiano.
Questa nuova divisione internazionale del lavoro comporta tre conseguenze:
1) Nel Nord del mondo il capitalismo diviene sempre più immateriale; per produrre simboli occorre infatti che le persone vengano impiegate (e mal pagate) in mansioni nelle quali viene richiesto il loro cervello più delle loro braccia e il cervello diviene maggiormente produttivo di simboli se riesce ad utilizzare per il lavoro gli stimoli che provengono dalla totalità delle sue esperienze di vita).
2) Nel Sud del mondo il capitalismo diviene sempre più materiale: aumenta il numero di operai (il cui totale su scala mondiale è in continua crescita) incaricati di produrre in condizioni di lavoro spesso proibitive gli oggetti su cui viaggiano i simboli.
3) Il frutto combinato dei due punti qui sopra è lo sviluppo di stili di vita sempre più consumisti, sempre più dissipatori di risorse ambientali, rispetto ai quali il progresso tecnico da solo può ben poco.
L’insieme di queste analisi suggerisce con chiarezza la necessità di affrontare la sfida con la teoria della crescita da più punti di vista:
sul piano culturale attraverso una decolonizzazione dell’immaginario;
sul piano economico attraverso un riproposizione delle domande fondanti: cosa produrre, come produrre, per chi produrre (e non solo come ridistribuire equamente quanto prodotto);
sul piano politico attraverso una serie di scelte che accompagnino il processo di decrescita verso obiettivi socialmente e ambientalmente desiderabili.
La decolonizzazione dell’immaginario (il piano culturale) ha bisogno di un superamento della separazione del sapere e della specializzazione frammentata nei processi di insegnamento (altrimenti non sarà possibile superare la visione meccanicistica e antisistemica della realtà); l’introduzione dello studio umanistico (filosofia e storia) nei corsi tecnici universitari (esperimenti condotti in alcuni paesi del Nord Europa) è un esempio importante di controtendenza.
La decolonizzazione dell’immaginario richiede l’abbandono del concetto di “modello”, ossia di quel processo di creazione di visioni teoriche della realtà a cui tutte le formazioni sociali dovrebbero essere chiamate a conformarsi (il modello sviluppo/sottosviluppo di Truman, o il modello staliniano adottato in molti paesi ad economia statalizzata ne sono due esempi estremi in negativo).
La strada per il benessere passa invece per le specificità ambientali, sociali, culturali, tecnologiche ed economiche di una grande pluralità di formazioni sociali; c'è la necessità di un approccio al benessere e alla cooperazione declinato in funzione delle singole particolarità.
Per rafforzare la decolonizzazione dell’immaginario è necessario ridiscutere anche le parole (che sono fortemente produttive di immaginario): sviluppo (variamente aggettivato), decrescita…sono parole adeguate per indicare l’aspirazione al benessere dell’umanità intera?
Un’economia che si interroghi sul cosa produrre dovrebbe operare una selezione dei settori in cui occorre ridurre o invertire la crescita a partire dai bisogni reali (non indotti dalla colonizzazione dell’immaginario): armamenti, sfruttamento delle risorse naturali, esportazioni, ecc.
Naturalmente nell’operare queste scelte l’economia non può essere scissa dal dibattito politico che ha il compito di discutere anche il tasso di crescita demografica, il livello di libertà individuali, ecc.
Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe porsi anche obiettivi quantitativi rispettosi dell’ambiente e rispettosi delle necessità per i popoli del Sud del mondo di arrivare a soddisfare bisogni fondamentali attualmente garantiti solo a una parte delle società (per concretizzare questa discussione l’Istituto di Wuppertal propone un dimezzamento del consumo delle risorse entro il 2050; presupponendo un aumento demografico del 60% e un’aspirazione all’eguaglianza nell’accesso al consumo, il Nord del mondo dovrebbe diminuire la propria crescita materiale del 5% annuo, mentre il Sud del mondo nell’arco dell’intero periodo dovrebbe al massimo arrivare a raddoppiare l’attuale utilizzo delle risorse, ndr).
In questo senso il protocollo di Kyoto è un primo passo significativo non tanto nella sua portata quantitativa, quanto per l’inversione di tendenza che può simbolicamente rappresentare. Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe ridurre le dimensioni delle sue unità produttive privilegiando l’aggregazione a rete delle attività medio-piccole rispetto alla creazione di grandi impianti (che inevitabilmente sprecano risorse ed energia). Da ciò discende che alcune fra le economie cosiddette “informali” possiedono un potenziale positivo (senza per questo dimenticare che al loro interno possono celarsi sacche di grave sfruttamento): in questo tipo di economie gli artigiani e i commercianti sono proprietari degli utensili di lavoro, e decidono la produzione in funzione dei bisogni espressi da una clientela in diretto contatto con loro (senza ingenerare pubblicità e favorendo pratiche di convivialità).
Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe darsi dei parametri di misura diversi dal Prodotto Interno Lordo. Da questo punto di vista l’Indice del Progresso Genuino (che separa la crescita quantitativa generale del PIL dai suoi costi sociali ed ambientali) è una proposta concreta; la sua adozione permette ad esempio di modificare il giudizio sulla crescita economica registrata negli Stati Uniti durante gli ultimi decenni.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe favorire la partecipazione popolare e il dibattito democratico. Questi presupposti, oltre ad essere eticamente corretti, sono utili in quanto limitano i contrasti e gli sprechi. Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe indirizzare le economie del Sud del mondo verso scelte di sviluppo autocentrato tese a soddisfare i bisogni essenziali della popolazione. Le economie locali (da sole o raggruppate) produrrebbero ciò che necessita al soddisfacimento dei bisogni interni, rispettando i caratteri endogeni del territorio e selezionando gli acquisti e le vendite sul mercato internazionale in stretta funzione di ciò che non ha senso o possibilità di essere prodotto localmente.
In questo senso è necessario che i governi del Sud del mondo decolonizzino il proprio immaginario, rifiutando la riproduzione in loco di modelli di crescita presi dal Nord e perseguendo una strada autonoma per garantire i diritti sociali alle proprie popolazioni.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe porsi l’obiettivo di tutelare dagli appetiti privati i beni comuni, garantendo un accesso gestito pubblicamente all’acqua, alle energie disponibili, all’istruzione, alla cultura, alla sanità, ai trasporti in comune (ivi compreso l’accesso alla conoscenza il cui potenziale di diffusione sociale non dovrebbe essere privatizzato attraverso la pratica del brevetto).
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe intrecciare il piano globale (ad esempio le discussioni relative alle scelte dei grandi organismi internazionali) con il piano locale; vi sono infatti beni comuni globali (la stabilità finanziaria internazionale, la regolazione sociale delle delocalizzazioni…) la cui tutela ricade favorevolmente sulle comunità locali.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe accompagnare i processi di decrescita con interventi politici quali la riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza, così da socializzarne gli effetti positivi.
Dopo due secoli di primato dell’economia sulle altre forme del vivere sociale una politica di questo tipo dovrebbe ricondurre il livello economico al suo ruolo:
uno fra i mezzi che l’umanità utilizza per realizzare il benessere di tutte le società presenti e future.
Questa nuova divisione internazionale del lavoro comporta tre conseguenze:
1) Nel Nord del mondo il capitalismo diviene sempre più immateriale; per produrre simboli occorre infatti che le persone vengano impiegate (e mal pagate) in mansioni nelle quali viene richiesto il loro cervello più delle loro braccia e il cervello diviene maggiormente produttivo di simboli se riesce ad utilizzare per il lavoro gli stimoli che provengono dalla totalità delle sue esperienze di vita).
2) Nel Sud del mondo il capitalismo diviene sempre più materiale: aumenta il numero di operai (il cui totale su scala mondiale è in continua crescita) incaricati di produrre in condizioni di lavoro spesso proibitive gli oggetti su cui viaggiano i simboli.
3) Il frutto combinato dei due punti qui sopra è lo sviluppo di stili di vita sempre più consumisti, sempre più dissipatori di risorse ambientali, rispetto ai quali il progresso tecnico da solo può ben poco.
L’insieme di queste analisi suggerisce con chiarezza la necessità di affrontare la sfida con la teoria della crescita da più punti di vista:
sul piano culturale attraverso una decolonizzazione dell’immaginario;
sul piano economico attraverso un riproposizione delle domande fondanti: cosa produrre, come produrre, per chi produrre (e non solo come ridistribuire equamente quanto prodotto);
sul piano politico attraverso una serie di scelte che accompagnino il processo di decrescita verso obiettivi socialmente e ambientalmente desiderabili.
La decolonizzazione dell’immaginario (il piano culturale) ha bisogno di un superamento della separazione del sapere e della specializzazione frammentata nei processi di insegnamento (altrimenti non sarà possibile superare la visione meccanicistica e antisistemica della realtà); l’introduzione dello studio umanistico (filosofia e storia) nei corsi tecnici universitari (esperimenti condotti in alcuni paesi del Nord Europa) è un esempio importante di controtendenza.
La decolonizzazione dell’immaginario richiede l’abbandono del concetto di “modello”, ossia di quel processo di creazione di visioni teoriche della realtà a cui tutte le formazioni sociali dovrebbero essere chiamate a conformarsi (il modello sviluppo/sottosviluppo di Truman, o il modello staliniano adottato in molti paesi ad economia statalizzata ne sono due esempi estremi in negativo).
La strada per il benessere passa invece per le specificità ambientali, sociali, culturali, tecnologiche ed economiche di una grande pluralità di formazioni sociali; c'è la necessità di un approccio al benessere e alla cooperazione declinato in funzione delle singole particolarità.
Per rafforzare la decolonizzazione dell’immaginario è necessario ridiscutere anche le parole (che sono fortemente produttive di immaginario): sviluppo (variamente aggettivato), decrescita…sono parole adeguate per indicare l’aspirazione al benessere dell’umanità intera?
Un’economia che si interroghi sul cosa produrre dovrebbe operare una selezione dei settori in cui occorre ridurre o invertire la crescita a partire dai bisogni reali (non indotti dalla colonizzazione dell’immaginario): armamenti, sfruttamento delle risorse naturali, esportazioni, ecc.
Naturalmente nell’operare queste scelte l’economia non può essere scissa dal dibattito politico che ha il compito di discutere anche il tasso di crescita demografica, il livello di libertà individuali, ecc.
Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe porsi anche obiettivi quantitativi rispettosi dell’ambiente e rispettosi delle necessità per i popoli del Sud del mondo di arrivare a soddisfare bisogni fondamentali attualmente garantiti solo a una parte delle società (per concretizzare questa discussione l’Istituto di Wuppertal propone un dimezzamento del consumo delle risorse entro il 2050; presupponendo un aumento demografico del 60% e un’aspirazione all’eguaglianza nell’accesso al consumo, il Nord del mondo dovrebbe diminuire la propria crescita materiale del 5% annuo, mentre il Sud del mondo nell’arco dell’intero periodo dovrebbe al massimo arrivare a raddoppiare l’attuale utilizzo delle risorse, ndr).
In questo senso il protocollo di Kyoto è un primo passo significativo non tanto nella sua portata quantitativa, quanto per l’inversione di tendenza che può simbolicamente rappresentare. Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe ridurre le dimensioni delle sue unità produttive privilegiando l’aggregazione a rete delle attività medio-piccole rispetto alla creazione di grandi impianti (che inevitabilmente sprecano risorse ed energia). Da ciò discende che alcune fra le economie cosiddette “informali” possiedono un potenziale positivo (senza per questo dimenticare che al loro interno possono celarsi sacche di grave sfruttamento): in questo tipo di economie gli artigiani e i commercianti sono proprietari degli utensili di lavoro, e decidono la produzione in funzione dei bisogni espressi da una clientela in diretto contatto con loro (senza ingenerare pubblicità e favorendo pratiche di convivialità).
Un’economia che si interroghi su cosa produrre dovrebbe darsi dei parametri di misura diversi dal Prodotto Interno Lordo. Da questo punto di vista l’Indice del Progresso Genuino (che separa la crescita quantitativa generale del PIL dai suoi costi sociali ed ambientali) è una proposta concreta; la sua adozione permette ad esempio di modificare il giudizio sulla crescita economica registrata negli Stati Uniti durante gli ultimi decenni.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe favorire la partecipazione popolare e il dibattito democratico. Questi presupposti, oltre ad essere eticamente corretti, sono utili in quanto limitano i contrasti e gli sprechi. Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe indirizzare le economie del Sud del mondo verso scelte di sviluppo autocentrato tese a soddisfare i bisogni essenziali della popolazione. Le economie locali (da sole o raggruppate) produrrebbero ciò che necessita al soddisfacimento dei bisogni interni, rispettando i caratteri endogeni del territorio e selezionando gli acquisti e le vendite sul mercato internazionale in stretta funzione di ciò che non ha senso o possibilità di essere prodotto localmente.
In questo senso è necessario che i governi del Sud del mondo decolonizzino il proprio immaginario, rifiutando la riproduzione in loco di modelli di crescita presi dal Nord e perseguendo una strada autonoma per garantire i diritti sociali alle proprie popolazioni.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe porsi l’obiettivo di tutelare dagli appetiti privati i beni comuni, garantendo un accesso gestito pubblicamente all’acqua, alle energie disponibili, all’istruzione, alla cultura, alla sanità, ai trasporti in comune (ivi compreso l’accesso alla conoscenza il cui potenziale di diffusione sociale non dovrebbe essere privatizzato attraverso la pratica del brevetto).
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe intrecciare il piano globale (ad esempio le discussioni relative alle scelte dei grandi organismi internazionali) con il piano locale; vi sono infatti beni comuni globali (la stabilità finanziaria internazionale, la regolazione sociale delle delocalizzazioni…) la cui tutela ricade favorevolmente sulle comunità locali.
Una politica affrancata dalla schiavitù della crescita dovrebbe accompagnare i processi di decrescita con interventi politici quali la riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza, così da socializzarne gli effetti positivi.
Dopo due secoli di primato dell’economia sulle altre forme del vivere sociale una politica di questo tipo dovrebbe ricondurre il livello economico al suo ruolo:
uno fra i mezzi che l’umanità utilizza per realizzare il benessere di tutte le società presenti e future.
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